venerdì, agosto 12, 2005

 

Di fronte all'infinito

Che c'entra la teologia con la più grande scoperta matematica dell'Ottocento?
Gli ebrei chiamavano l'infinito En Sof, e lo identifiavano con Dio: "Lui è invisibile , i suoi segni sono visibili" (Montefoschi, Korrierone di oggi). Riprese il discorso il fondatore del Liceo, Aristotele: pensò l'infinito come ciò a cui si può sempre aggiungere un'unità, l'infinito come "non concluso", apeiron, illimitato: e che orrore ne avevano i tanto osannati greci.
Qualche tempo dopo un matematico folle che abitava in terra di Germania (Georg Cantor) immaginò un altro infinito, quello attuale: l'infinito è qui e si può pensare. Ne distinse almeno due tipi: quello numerabile (i cui elementi possono esssere contati) e quello "continuo" (i cui elementi sono talmente densi che non possono essere contati): e qui tremiamo, perchè qui la ragione è in affanno. "Esiste davvero l'incomprensibile, si mostra ed è mistico", farfugliò l'icona radical-pop Ludwig Wittgenstein. Ho quasi finito (!!): perché c'è ancora un altro infinito, quello assoluto, invisibile: l'En Sof.

Il mio infinito preferito resta quello di Leopardi: "E il naufrager m'è dolce in questo mare"

"Luce e buio. La luce è imprigionata nel buio. Compito dell'ebreo buono e pio è quello di liberare la luce. In che modo? Con le proprie azioni: buone e pie. E' la grande respnsabilità del perfezionamento della creazione che la religione ebraica affida all'uomo. Leggere un libro con buone intenzioni, fare l'amore con trasporto, risuolare una scarpa: tutto contribuisce al perfezionamento dell'Essere" (dal Korrierone di oggi).

Buon ferragosto, a chi resta e a chi si farà arrosto.
:-)

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